
Non sono pronto per il canalone di Lévò. E va bene così.
Ore 5: suona la sveglia.
È ancora buio fuori, e la casa è silenziosa come un rifugio di montagna prima dell’alba. In cucina, il profumo del caffè americano riempie l’aria, mentre il tostapane borbotta piano: due fette di pane stanno dorandosi con calma, come se anche loro si stessero preparando alla giornata. Una finirà con la marmellata ai frutti di bosco — dolce, morbida, perfetta per l’anima. L’altra con una fetta di prosciutto cotto — salato, concreto, perfetto per i muscoli.
Proprio mentre sto per affondare il coltello nel barattolo, il telefono vibra.
Messaggio sullo schermo:
“Sei pronto ad affrontare il canalone di Lévò?”
Sorrido. Non ci penso neanche un secondo.
La risposta è automatica, quasi quanto il timer della macchina del caffè:
“No, non sono pronto. Ma è proprio questo il bello.”
Perché certe sfide non vogliono la tua perfezione.
Vogliono la tua verità.
Il tuo coraggio mezzo addormentato.
Il tuo “ci provo lo stesso”, anche con le briciole ancora in bocca.
Lo Zerbion non è una gara. È un rito di passaggio.
Siamo a Châtillon, in Valle d’Aosta. Qui la natura è brutale. Vera. Qui le corse non si “fanno”. Si attraversano. La Monte Zerbion Skyrace non è solo una competizione. È una prova iniziatica lunga 22 km con 2200 metri D+. La prima parte ti inganna. È tecnica, a tratti corribile. Ti fa illudere. Ti fa pensare che andrà bene.
Ma lo Zerbion ti guarda da lontano, e dentro sai che il peggio deve ancora arrivare.
Tsesallet: dove inizia il vero viaggio
Dopo un tratto tra boschi e mulattiere arrivi a Tsesallet, un alpeggio a 1740 metri di altitudine, funge da punto di sosta e di svolta per i diversi percorsi della gara, offrendo ai partecipanti una vista mozzafiato sulla montagna.
Non è solo un punto sul percorso.
È un confine. Un ultimo respiro su 300 metri di falso piano.
Un sorso d’acqua, Uno sguardo al cielo.Poi inizia l’inferno verticale: il canalone di Lévò.
8 km per 1000 metri di dislivello positivo. Non una salita. Un attacco. Un corpo a corpo con la montagna.

Il canalone di Lévò: dove ti scopri per quello che sei
Il passo si spezza.
Le mani si appoggiano alle ginocchia.
Il cuore martella nelle orecchie.
Ogni pensiero si riduce a tre parole:
“Un passo ancora.”
Lì dentro non sei mai pronto.
E va bene così.
Perché il canalone ti svuota, ti spezza, ti mette a nudo.
Ma proprio quando ti chiedi perché lo stai facendo, succede qualcosa.
Scopri che puoi. Scopri che resisti.
Scopri che sei molto di più di quanto credi.
Non si può simulare. Si può solo attraversare.
Puoi allenarti quanto vuoi. Puoi fare vertical, salite, palestra. Ma il Lévò non si allena. Si affronta.
E non è solo fisico. È mentale. È spirituale. Nel cuore del canalone non conta il tempo.
Non conta il GPS. Conta solo quanto sei disposto a non mollare. Ed in queste gare, ogni anno, io capisco qualcosa in più di me.








La vetta dello Zerbion: il punto più alto… dentro di te
Ma pieno.
Non è il panorama a darti la scossa. È quella voce dentro che dice: “Ce l’ho fatta.”
Non ad alta voce. Non per vantarti.
Ma per ricordarti che sei capace.
Che puoi. Che sei vivo.
La discesa che non perdona

I quadricipiti urlano, le caviglie ballano sulle pietre, ogni curva è una decisione. Qui non basta lasciarsi andare: serve concentrazione, tecnica, lucidità. Perché se la salita mette alla prova la tua forza mentale, la discesa mette alla prova il tuo controllo.
Sembra non finire mai, eppure ogni metro divorato ti riporta alla realtà, giù verso Châtillon.
Ogni passo è un ritorno, ma anche un’ultima occasione per dare tutto.
Quando finalmente intravedi l’arco d’arrivo, ti accorgi che le gambe sono finite… ma tu, no.
Tu sei ancora lì, a spingere, anche se sembra impossibile.
Ed è proprio in quel momento che capisci:
la corsa finisce sotto l’arco, ma la trasformazione è già avvenuta molto prima.
Correre non è sport. È mentalità.
“Ma chi te lo fa fare?”
Me lo fa fare il bisogno di superarmi. La voglia di capire chi sono davvero.
Il desiderio di sentirmi piccolo davanti alla montagna…
…e immenso dentro, quando non mollo. Il canalone di Lévò non si supera con le gambe.
Si supera con la testa.
Con l’umiltà di sapere che potresti fallire.
E il coraggio di provarci lo stesso.
E alla fine, capisci.
Non è mai stato solo un canale.
Non è mai stata solo una gara.
È stato un viaggio.
Un pellegrinaggio.
Un ritorno a casa.
Dentro te stesso.
E quindi no, non sono mai pronto.
E va bene così.
Perché la prontezza è sopravvalutata.
L’incoscienza, invece, è una scintilla.
Una fiammella che ti fa dire:
“Ok. Andiamo.”
in conclusione

Alla fine, quando tutto si ferma, quando le gambe tremano e il cuore rallenta, resta solo una cosa: la consapevolezza di averci provato davvero.
Non c’è medaglia che possa raccontarlo. Non c’è classifica che possa misurarlo.
Perché la Monte Zerbion Sky Race, come ogni sfida autentica, non la ricordi per i metri percorsi o per il tempo segnato. La ricordi per quello che ti ha tolto… e per quello che ti ha dato.
Ti ha tolto fiato, forze, certezze.
Ma ti ha dato verità, presenza, orgoglio.
E questa è la vera vittoria.
Correre qui, salire qui, vivere qui — in mezzo alla roccia, al vento, al silenzio — significa ritrovare qualcosa che fuori, nella vita comoda e prevedibile, spesso dimentichiamo: la parte più forte, più fragile e più vera di noi.
Alla prossima sfida.
Alla prossima montagna.
Al prossimo “non sono pronto”.